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La Pubblica Amministrazione veleggia verso la digitalizzazione, almeno sulla carta. Ad oggi difettano le tecnologie e anche le competenze. E così la prossima adozione del BIM rischia di mettere in ginocchio gran parte dei Comuni italiani.
La rivoluzione informatica lascia i Comuni al palo?
Dal 1° gennaio 2025, il Building Information Modeling (BIM) è obbligatorio per la progettazione e gestione delle opere pubbliche, come previsto dal Codice degli appalti (Dlgs. 36/2023). Sulla carta, questa innovazione promette trasparenza ed efficienza, ma nella realtà si prospetta come un salto nel vuoto per gran parte dei Comuni italiani.
Obbligatorio per i progetti sopra i 2 milioni di euro e per quelli oltre la soglia comunitaria di 5,5 milioni di euro (per edifici vincolati secondo il Testo Unico dei Beni Culturali), il BIM richiede una transizione digitale che molti enti locali non sono pronti ad affrontare. Con risorse economiche limitate e personale spesso inadeguato, i Comuni si trovano davanti a un bivio: affrontare questa sfida con mezzi di fortuna o, più realisticamente, restare esclusi dalla rivoluzione.
Ecco, quindi, che l’ANCI ha già lanciato l’allarme: senza interventi strutturali, molti Comuni non riusciranno a rispettare le scadenze. Si propone l’idea di consorzi tra amministrazioni comunali per condividere risorse e competenze, cosa che nella pratica rischia di scontrarsi con la solita mancanza di coordinamento e con l’immobilismo burocratico.
Indagine Skein BIM: vantaggi belli e impossibili
Secondo Skein BIM, azienda leader nel settore dell’edilizia digitale, il 51,9% degli operatori del settore riconosce i benefici del BIM ma denuncia gravi difficoltà nell’integrarlo negli enti pubblici. E come dargli torto? Tra personale non formato, costi insostenibili e infrastrutture obsolete, il BIM sembra un lusso che i Comuni non possono permettersi.
Le soglie indicate dal correttivo al Codice riducono l’impatto dell’obbligo sui piccoli Comuni, limitandolo a quelli di medie e grandi dimensioni. Tuttavia, anche i grandi centri, che dovrebbero essere meglio equipaggiati, si trovano a fare i conti con un labirinto di complessità amministrative e finanziarie. Tra gli ostacoli principali:
- Personale non qualificato: formare i dipendenti o assumere esperti esterni comporta costi elevati, che pochi Comuni possono sostenere.
- Tecnologia inaccessibile: software, hardware e supporto tecnico rappresentano un investimento che rischia di allargare il divario tra Comuni ricchi e poveri.
- Burocrazia paralizzante: il BIM implica flussi digitali complessi, bandi più dettagliati e contratti più articolati, aumentando il rischio di errori e contenziosi.
Dunque, l’innovazione digitale si presenta come un privilegio per pochi piuttosto che come una soluzione sistemica. La promessa di trasparenza e modernità rischia di trasformarsi in una trappola per le amministrazioni già in difficoltà.
La nostra analisi: il BIM è solo un vecchio trucco già visto?
Il BIM rappresenta un’idea affascinante, ma nella sua implementazione rischia di diventare un nuovo “castello di carta”. Le difficoltà evidenziate dall’indagine Skein BIM, unite alla realtà quotidiana dei Comuni italiani, delineano uno scenario in cui l’innovazione rischia di accentuare le disuguaglianze. Come può il legislatore parlare di trasparenza ed efficienza quando non offre le risorse per realizzarle? Senza interventi strutturali questo obbligo rischia di lasciare indietro proprio chi avrebbe più bisogno di innovare.
È necessario un cambio di prospettiva per realizzare nei fatti il modello di un’edilizia 4.0: il legislatore deve smettere di imporre scadenze irrealistiche e iniziare a lavorare per costruire un sistema di competenze e infrastrutture che includa tutti i Comuni, indipendentemente dalle loro dimensioni e capacità economiche. Solo così il BIM potrà trasformarsi in un’opportunità concreta, anziché nell’ennesima utopia.